#02. Piccolo è bello. Sì, no, forse…

14.02.23|In CooMag Editoriale
Di Riccardo Pioli, Direttore CoopfidiTempo di lettura: 4'

“Al giorno d’oggi soffriamo di un’idolatria quasi universale per il gigantismo. Perciò è necessario insistere sulle virtù della piccola dimensione, almeno dovunque essa sia applicabile”.

Nel vedere come sta andando a finire, si starà probabilmente rivoltando nella tomba Ernst Friedrich Schumacher, il filosofo ed economista tedesco che proprio cinquanta anni fa scrisse questa frase e affermò al mondo il concetto di “piccolo è bello”. Eravamo all’inizio del consumismo di massa, la tecnologia informatica era agli albori e quello che oggi fa uno smartphone che teniamo in tasca a malapena lo faceva un macchinario all’interno di un ufficio di svariati metri quadri.

Il buon Ernst non avrebbe mai potuto  immaginare che avremmo ordinato il suo libro seduti sul divano dal sito internet di un colosso dell’informatica mentre mangiavamo una pizza portata a casa per quattro euro da un cinquantenne in bicicletta che da poco ha perso il lavoro e ordinata attraverso un’app ideata da un paio di ventenni in un garage. 

Sarebbe stato troppo… eppure è andata così. In pochi anni abbiamo messo la nostra economia e le nostre vite nelle mani di pochi che rendono più facili le nostre vite, almeno in apparenza, e portandoci oltretutto a pensare inconsciamente l’impensabile:  grande è bello. 

E tutto questo ha travolto e devastato la nostra economia nazionale, basata proprio sui piccoli: artigiani, commercianti e agricoltori.

È cosi che a poco a poco siamo passati dal parlare di impresa “bonsai” a impresa “nana”, intesa come incapace di crescere e inefficiente nei processi.

È un po’ questo, estremizzando, quello che cominciamo tutti quanti a pensare sulla spinta dei media, degli influencer o dei social. Sei il titolare di una piccola impresa o lavori in un’impresa artigiana? Bella da raccontare, ma non da lavorarci. Insomma, meglio l’open space di Google o Apple che la bottega….

Ovviamente sto esagerando, me ne rendo conto, mosso dalla mia esperienza quasi trentennale (aimè) di lavoro in un’Associazione di categoria come la CNA. E’  però vero che quel 96% di imprese in Italia che occupano meno di tre dipendenti e considerate da tutti “l’ossatura del sistema economico nazionale”, sono quotidianamente bistrattate da molti, affascinati dal suono melodioso della grande impresa, ricca, tecnologica e globale.

Il nostro Paese sta così perdendo un pezzo importante del mondo produttivo: quell’artigianato, impropriamente utilizzato da spot pubblicitari e rinominato dalla politica “made in Italy” che rappresenta non solo la storia economica del nostro Paese, ma anche la memoria delle tradizioni rurali e artigiane dei nostri nonni.

È questo che probabilmente dobbiamo recuperare, i valori propri dell’artigianato: dal saper fare alla bellezza che da esso  promana. Solo così continueremo a valorizzare il nostro Paese e la sua ricchezza culturale. Dobbiamo riappropriarci dei concetti di comunità, di mutualità, di associazionismo: capire che uno vale uno, ma che tanti valgono più della loro somma. Parlare con il “noi”, non con l’ “io”.

Ne saremo capaci? Non lo so, ma se penso che il piccolo Davide con la sua creatività riuscì ad abbattere il grande Golia e che l’astuto Ulisse accecò il ciclope Polifemo e uscì fuori dalla sua grotta riacquistando la libertà, tiro un sospiro di sollievo e  riprendo fiducia nel futuro.

Del resto rimango convinto che nei libri e nelle esperienze degli altri si trovi sempre una soluzione.


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